Cinema, le recensioni dei film nelle sale del Veneto: «Una squadra» e gli altri - CorrieredelVeneto.it

2022-09-03 10:22:42 By : Mr. david wang

«Una squadra» di Domenico Procacci

«Il naso o la cospirazione degli anticonformisti» di Andrey Khrzhanovsky

«Nel mondo accadono cose inverosimili”»: e mai frase potrebbe interrogare meglio i nostri cuori in tempesta in questi mesi di stupore e impotenza di fronte alla guerra. Il film di Khrzhanovsky riprende la divisione in tre parti del racconto dello scrittore russo Nikolaj Gogol’ e per esprimere quell’atmosfera da teatro dell’assurdo che domina la scrittura, alterna un’animazione vecchio stile, tutto carta e colori dati a mano, a montaggi di film russi inseriti in una cornice narrativa girata per l’occasione. Parlare di preveggenza dell’arte forse non è così peregrino. Il film è stato girato nel 2020, ma i temi sul piatto in questo periodo parlando di regimi (in questo caso la Russia) ci sono tutti: il ciclico avviarsi passo dopo passo verso l’autoritarismo, la condiscendenza cieca verso il potere e verso l’uomo forte, la tutela sacra delle apparenze a dispetto dell’essenza, il trattamento riservato agli umili e alle masse. Khrzhanovsky procede per quadri, non per tesi, anche se il suo punto di vista è continuamente espresso, ma senza far torto all’arte, anzi. E in un crescendo di godimento visivo per un’opera animata densa di senso e di visioni, si prende gioco del potere ritraendo Stalin mentre chiede a uno stuolo di sottoposti schierati come davanti a un plotone d’esecuzione di esprimere un parere sulla musica di Shostakovich. Libero, eh. Voto: 8. Designato film della critica dal sindacato nazionale critici, il film è un oggetto raro, prezioso, da conservare nel ricordo chiudendo gli occhi.

«Noi due» di Nir Bergman

Uri e suo padre, Aharon. Solo loro i «Noi due» del titolo di questo film che ha un ritmo lento ma porta progressivamente e ostinatamente lo spettatore dentro il loro mondo, le loro stelline di pasta, il loro Charlie Chaplin, le loro domande che hanno sempre le stesse risposte. Uri è autistico, il padre è prigioniero di un amore che si è fatto alibi per non vivere più, scudo verso chi non può capire, tutti, compresa la madre, accusata con i suoi silenzi da Aharon di non esserci, non viverlo, forse non amarlo nel modo giusto. Vedendolo non possono non tornare in mente altre dinamiche con ragazzi o persone autistiche, da «Rain man» a «Se ti abbraccio non aver paura», ma qui la differenza la fanno i segni sul viso del padre, il corpo da giunco del figlio che si piega per parlare con gli altri come sotto un vento forte, ostile. Come in tutti i road movie, anche qui arriva il momento della rottura, della crisi. E ciò che segue è dolore sordo, nemmeno nostalgia. Ma se il finale non si può dire, si può dire di quanta emozione scorra nelle poche battute finali. Ancora e sempre tra loro due. Voto: 7,5. Per la recitazione e un finale che mette i brividi a tutti i genitori che non vorrebbero mai veder crescere i loro figli.

«Una squadra» di Domenico Procacci

Debutto alla regia del produttore Procacci, questo film è il primo dei sei episodi di una serie che andrà in onda su Sky Documentaries e in streaming su Now Tv. È la storia dell’unica «squadra» italiana che ha strappato al mondo la Coppa Davis. Siamo sulla terra rossa, sul prato e sul cemento dei campi da tennis. Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli, guidati da Antonio Pietrangeli, arrivano in Cile per disputare la finale contro i padroni di casa dopo una serie interminabile di polemiche in patria. È il 1976, in Cile c’è il regime di Pinochet e giocare nello stadio dove erano prigionieri i desaparecidos scatena reazioni politiche furibonde nell’Italia guidata dalla Dc in cui il Pci ha un governo ombra. Il film racconta quella finale, come ci si arrivò, la scorta della polizia per i giocatori che dovevano partire, le magliette rosse di Panatta e Bertolucci nella finale, come protesta contro Pinochet, ma un po’ offuscata dal bianco e nero. Ma racconta anche i caratteri di quattro campioni, le imprese da viveur di Panatta e Bertolucci, capaci di prendere un Concorde da Città del Messico per tornare a Roma dopo un torneo solo per passare una notte con due ragazze parigine. C’è cameratismo, rivalità, ci sono verità nascoste e mille verità diverse in questo flusso di coscienza che racconta l’Italia più di tanti documentari sul periodo. E ha quel gusto agrodolce della nostalgia per un tempo in cui i campioni sapevano godersi la vita con stile, tirare qualche cazzotto al pubblico e farla comunque sempre franca. In nome di un sorriso che oggi sembra trascolorare tra allenatori, uffici stampa, sponsor. Voto: 7. Per l’operazione – c’è anche un libro edito da Fandango sempre di Procacci che racconta la storia – per la godibilità di un prodotto intelligente e per nulla assolutorio.

Un mosaico di storie in una Roma di periferia. Una moglie che raccoglie l’ennesimo panno sporco e crolla sul pavimento sciatto della cucina; una prostituta 19enne che fa innamorare il garzone di un piccolo negozio; due adolescenti alle prese con la prima volta. Il cinema corale è tra i più difficili da realizzare. Alla Steigerwalt, cresciuta nel vivaio di Muccino, non sembra essere sfuggito un piccolo film americano di qualche anno fa «Me and you and everyone we know» dell’artista Miranda Julie, ma forse nemmeno qualche esempio italiano degli anni Cinquanta e Sessanta. Diciamo subito che tra gli universi dei ragazzi e quello dei grandi, quello che funziona meglio è il primo. Più delicata la mano nel descrivere i baci attraverso il cellophane dei ragazzini, più curiosa la macchina da presa nel riprendere la prostituta che si infila in un’utilitaria per trascorrere una giornata di mare «normale» a Ostia. Tra i grandi invece è tutto più caricaturale e già visto. E il marito distratto (Andrea Sartoretti) finisce per essere una macchietta e ad allontanare lo spettatore. Così il film si avvia a una conclusione scontata, dove Fabrizio Bentivoglio è sempre più la caricatura del personaggio che ventidue anni fa gli regalò Carlo Mazzacurati nella «Lingua del Santo». Voto: 6+. Per le buone intenzioni, dimenticate strada facendo.

«Arthur Rambo-Il blogger maledetto» di Laurent Cantet

A Cantet non sfuggono le banlieu, le difficili convivenze tra i sommersi e i salvati di una società che gode nell’accentuare divari e differenze tra classi. Aveva descritto una classe difficile salvata dal prof nel film «La classe», qui tutto ciò che di buono il protagonista ha fatto – una tv per dare voce a chi non ce l’ha, un blog, un libro sulla madre migrante – lo ha fatto prima che il film cominci. Quando lo vediamo in scena è all’apice di un successo così effimero da durare un paio di inquadrature. Il tempo perché il successo, solidificandosi, piombi come un macigno risvegliando un alter ego politicamente scorretto e corrosivo del protagonista, che, sedicenne, twittava le peggiori nefandezze che però davano voce a un certo malessere diffuso. Il passato dei social non è una terra straniera, ma un posto dove le impronte hanno un nome e un cognome e la caduta è rovinosa tanto più era stata alta e rapida l’ascesa. Il film però non riesce a esprimersi, è fermo, soprattutto nella seconda parte, nella discesa agli Inferi del personaggio che tenta di chiudere i conti nella sua vita ma sbatte contro porte sempre più chiuse. E così il film, che era partito con un bel ritmo seppure molto didascalico, si chiude pensoso e pentito, lasciando lo spettatore mezzo addormentato. Voto: 5,5. Buona l’idea, non altrettanto la storia e lo svolgimento.

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